Set
30
Perché la diffamazione non è un reato d’opinione
Sto seguendo a distanza, un poco distrattamente – ma quando mi concentro l’angoscia aumenta – la paradossale discussione sul caso Sallusti e la sua diffamazione a mezzo stampa di altre persone, per la quale diffamazione, oggi, lui rischierebbe la detenzione. Perché angoscia diffusa?
Non certo per il destino di un povero giornalista che ha costruito la sua carriera sulla calunnia e sulla diffamazione metodica, continuata e incredibilmente aggressiva. E neppure per la violazione dei diritti civili comunemente riconosciuti nelle democrazie occidentali: chi offende un’altra persona senza motivo e cerca di rovinarne la reputazione, in pubblico e in privato, è il primo a violare i diritti di quella persona e merita comunque di essere punito e condannato al risarcimento. Se offende un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, come ad esempio un magistrato, inventandosi delle balle sanguinose, lo spauracchio del carcere ha comunque un senso.
Ma il problema non è questo, è il fatto che nel dibattito di questi giorni sta passando il concetto che il “reato d’opinione” è legato all’espressione di un pensiero, di una posizione, di un’opinione appunto, e quindi comprenderebbe anche la diffamazione e la calunnia.
Forse allora conviene tornare ai fondamentali del diritto, che studiano tutti gli studenti di giurisprudenza, e definire cosa è un reato d’opinione.
Prima di tutto, non ha nulla a che fare con l’espressione di un pensiero (opinione), e, soprattutto, la DIFFAMAZIONE NON E’, NON E’ MAI STATA E MAI SARA’ UN REATO D’OPINIONE. Neppure la diffamazione a mezzo stampa.
Il reato d’opinione lo possiamo dividere in quattro categorie: 1) vilipendio, propaganda e apologia con particolare riferimento ai crimini contro lo Stato, i suoi rappresentanti e i suoi simboli; 2) l’apologia di reato; 3) il vilipendio delle religioni ammesse dallo stato; 4) la propaganda razzista e l’incitamento all’odio razziale. Punto.
Tutto il resto: la calunnia, l’ingiuria, la diffamazione, sebbene espressi per mezzo della parola o dello scritto, non hanno nulla a che fare con il reato d’opinione.
Sentire invece in questi giorni tirato in ballo continuamente il reato d’opinione come fattispecie delle sallustiate, colpisce e dà il senso di un dibattito cialtronesco come la sua vittima, sguaiato e fondato, più che su qualche basilare conoscenza di diritto, su luoghi comuni, sentimenti, stati d’animo.
Si può e si deve regolamentare diversamente il ruolo del direttore di ogni testata giornalistica senza doverlo considerare responsabile di tutto quello che viene pubblicato sul suo foglio o dalla emittente, ma mantenendo la responsabilità individuale: resta il fatto che se un giornalista approfitta della sua amplificata visibilità e del suo strumento mediatico per infangare una persona o un gruppo di persone, questo non compie un reato d’opinione, compie un reato contro altre persone.
Vorrei che questo concetto, primordiale, passasse nella testa e nelle parole dei tanti seguaci di John Stuart Mill che oggi lo citano senza conoscerlo, impastandosi la bocca con riferimenti fuori luogo per salvare un personaggio che ha eretto la calunnia a forma di vita.
Senza contare, poi che qui, nella civilissima America che mi ospita per un poco, il reato di “libelling and defamation” è perseguito con severità e, se attuato contro un civil servant, porta comunque all’espulsione dalla professione, al pagamento di pesanti sanzioni pecuniarie e, in casi gravi, anche al carcere…
Questo tuttavia non basta, continuerò a deprimermi nel sentire (leggere) la gente che parla a vanvera di cose che non conosce con finta competenza, avallate da persone che quelle cose le dovrebbero conoscere e fanno invece finta di non saperle.