Ago
13
Il Ventennio
Leggere il bel libro di Enrico Deaglio, “Indagine sul Ventennio” fa veramente impressione. La prima cosa che salta all’occhio è la descrizione crudemente statistica delle condizioni del Paese nel 1994 e quelle di oggi: nel 1994 il tasso di disoccupazione era del 10,6% e oggi è del 12,2%;
Nel 1994 6 milioni e mezzo di persone vivevano nella fascia della povertà , oggi sono 9 milioni e mezzo, il 15,8% della popolazione;
Nel 1994 la pressione fiscale complessiva incideva per il 40,77% del reddito prodotto su scala nazionale, oggi siamo al 44%;
Una pensione minima era di 602.350 Lire nel 1994, oggi è 495,43 euro (Lire 959.286, ma considerando l’aumento dei prezzi conseguente all’introduzione dell’euro e ai mancati controlli – sempre del governo del ventennio – tale somma non ha un potere di acquisto paragonabile alla cifra del 1994);
I cittadini di origine straniera erano mezzo milione abbondante nel 1994, oggi ce ne sono almeno cinque milioni, molti dei quali irregolari.
Non è un bel bilancio.
Ovviamente non si può affermare che tutto quello che è successo in vent’anni sia colpa diretta dei governi retti da Berlusconi, però si tratta di un periodo dominato da un senso di ottundimento, politico e civile, che ha lasciato spazio libero ai nani e alle ballerine del cavaliere di Arcore, affiancato da un’agguerrita pletora di scudieri, cortigiani e complici.
Ottundimento perché non si riesce proprio a comprendere, se non ricorrendo alle categorie della psicanalisi, come sia stato possibile che una persona con la moralità “elastica” come Berlusconi abbia trascinato le folle elettorali verso un risultato che è sotto gli occhi di tutti: la decadenza irreversibile, definitiva e ormai avviata verso la dissoluzione sociale, di questo Paese.
E parimenti non si riesce a comprendere come sia stato possibile che una forza attiva e organizzata come il fronte dell’opposizione, nelle sue varianti di Ulivo, Unione e infine PD, abbia accompagnato, assecondato, subito Berlusconi nella sua ascesa verso il consolidamento non solo del suo potere, ma di un’idea di Paese che oggi risulta praticamente vincente: il Paese non solidale, fondato sul tornaconto personale e sull’occasione per sé e fanculo il resto (tutti), il Paese familista amorale, dove conta solo il rapporto di clan – anche in politica – e dove la stessa politica è vista non come servizio ma come un momento di promozione personale e magari occasione di facile guadagno.
Poi è arrivato Renzi, che per molti motivi appare come la naturale continuazione del Ventennio in versione 2.0.
Renzi è organico al berlusconismo non solo per i tratti guasconi della sua personalità , la retorica facilona e la tendenza a spararle grosse (memorabile la “scaletta” delle riforme pronunciata in primavera, che appariva improbabile a tutti e da tutti accettata invece come una verità concreta). No, non è solo questo.
Renzi è organico al berlusconismo perché gli ha dato linfa vitale, ha raccolto da terra un premier condannato e screditato, umanamente e politicamente, e ne ha fatto l’interlocutore privilegiato per cambiare, nientemeno, il Paese. Pensando di essere troppo furbo, come si dice in Toscana, Renzi è stato coglione: di fronte alla difficoltà finanziarie ed economiche di un Paese allo sbando, nel quale le priorità sembrano essere solo la riforma costituzionale, la legge elettorale e l’abolizione del Senato, Renzi ha aperto un credito politico a Forza Italia e al suo capo pensando in questo modo di razzolare voti in un’area che con la sinistra riformista italiana non ha nulla a che fare. Il partito pigliatutto, categoria politologica ben nota a chi ha studiato un poco di scienza politica, il catch-all party, è diventato l’obiettivo di Renzi, e per pigliare tutto che cosa doveva fare se non aprire un dialogo costruttivo e organico con il suo “nemico”? Renzi ha ragionato come un democristiano della prima repubblica: sfrondare le estreme per puntare al centro, nella convinzione che tanto una piccola quota di dissenso, un 5% a destra e un 5% a sinistra, vi sarà sempre, egli punta a costituire un partito-area che raccolga voti moderati, moderatamente progressisti e conservatori, fondato su una ricetta consociativa che sdogana definitivamente non solo Berlusconi – magari non ne aveva manco bisogno – ma il berlusconismo come cifra interpretativa della società italiana.
Però ha fatto un grande errore Renzi, l’errore del furbo che appunto non si accorge di essere a sua volta strumento di qualcun altro: nel marasma economico e nelle difficoltà di tutti, di tutte le persone che non hanno in mente come priorità la legge elettorale e l’abolizione del Senato – cioè, misura spannometrica, il 99% degli abitanti del Paese – Renzi non si è accorto che lo zoccolo duro del consenso a Berlusconi, sebbene momentaneamente virato verso il “nuovo” PD pigliatutto, è pronto a riprendere il suo posto accanto al leader rinvigorito, il quale potrà peraltro fregiarsi di due meriti, uno negativo e uno positivo: quello positivo è avere contribuito in maniera fattiva alle riforme costituzionali, attribuendosi un merito nientemeno che “costituente”, quello negativo è di non essere stato parte dell’inerzia di un governo che ha pensato solo al sistema di potere e istituzionale senza dedicare un’attenzione, se non distratta, al governo delle questioni economiche e sociali.
Anche questo, a ben vedere, è un gran bel risultato.